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Flessibilità, organizzazione snella, attitudine al cambiamento,
internazionalizzazione, eccellenza nella qualità, sono le prescrizioni e
le ricette che i guru del management elargiscono a piene mani alle
imprese nello sconfortante panorama dell'ultimo decennio del ventesimo
secolo, nella speranza di alleviare le sofferenze di un numero sempre più
elevato di malati gravi e gravissimi la cui sopravvivenza è molto
incerta.
Automobili, chimica, acciaio, informatica, elettronica civile,
elettrodomestici, tessili, robotica, cantieristica navale, trasporti
aerei, navali, terrestri, tutto è in crisi e sembra che la graduatoria
penalizzi particolarmente i grandi e grossi, cosa che contribuisce a
rendere più lugubre l'atmosfera. Non si può non pensare che, solo fino a
pochi anni fa, essere grossi o diventarlo sembrava l'unico obiettivo di
quasi tutti i capi di azienda, indipendentemente dalla disponibilità di
risorse finanziarie, dalla tipologia dei prodotti, dalla natura dei
mercati, in questo confortati dalla inossidabile certezza di tutta la
stampa economica, nazionale e internazionale, per la quale il motto "big is beautiful" aveva il valore di un dogma.
Eppure i sintomi di stanchezza e di malessere non mancavano, era
obiettivamente difficile che certi ritmi di sviluppo potessero continuare
all'infinito, che le crescenti e stridenti discrasie e contraddizioni
della società industrializzata alla fine non venissero al pettine, che la
gente non si accorgesse del divario crescente tra produzione di ricchezza
economica e benessere reale, e in fondo non finisse con l'essere presa da
una forma di noia mortale, di "taedium vitae", per un mondo in
costante peggioramento ma in cui, per andar bene, tutto doveva sempre
crescere, ma senza alcun ricambio di valori.
C'è stato il problema del crollo dei muri; e quello di Berlino non è
stato il solo, anzi sembra che il fenomeno si generalizzi e si estenda. La
gente pare aver capito che anche le più granitiche strutture, opprimenti
ma anche protettive, possono essere abbattute e che senza di esse si può
vivere meglio. Dall'Unione Sovietica all'IBM, dal sistema dei partiti
italiano all'unione monetaria europea, dal centralismo degli stati alle
organizzazioni aziendali, siamo in presenza di una vasta azione di
destrutturazione che sembra non risparmiare nessuno. Inoltre tutti questi
vasti movimenti, anche se vanno tutti in una certa direzione, non sono per
nulla eventi graduali e prevedibili, tanto è vero che nessuno li aveva
anche solo lontanamente immaginati.
Ma limitandosi alle aziende è assolutamente certo che la crisi che
attanaglia la maggior parte di esse non è congiunturale ma profondamente
strutturale. Prova ne è che possiamo dire, in un certo senso, trattarsi
di un fenomeno non tanto da "conto profitti e perdite ", ma piuttosto da " stato
patrimoniale ", in quanto sono state, alla grande, distrutte risorse
un po' dappertutto. Infatti il vero problema di oggi è proprio questo:
gran parte degli investimenti fatti negli anni passati in ricerca e
sviluppo, scalate, acquisizioni, joint-venture, si sono volatilizzati
perché il mondo è andato in una direzione diversa dal previsto. Questo
fenomeno ha interessato in particolare i grandi gruppi che si sono
ritrovati quasi tutti, pur operando in settori molto differenziati,
dall'auto, all'informatica, alla chimica, alle linee aeree, ecc.,
fortemente indebitati alla fine del ciclo espansivo degli anni 80. E come
nel gioco del poker alla mossa "vedi", all'inizio del nuovo ciclo
economico avviato con gli anni 90, si scopre che degli investimenti fatti
non si riesce più a trovare traccia, almeno per quanto concerne la
colonna dell'attivo del bilancio, restando viva, ahimè, quella del
passivo.
Per spiegare che cosa è successo bisogna ricordare che quando si fa una
spesa o si destinano risorse ad un determinato obiettivo, anche se nel
bilancio tali voci sono catalogate come "investimenti", se lo siano
davvero lo si sa solo dopo.
Ad esempio nel campo dell'informatica, dove la vita dei prodotti è
brevissima, il progetto di un personal computer è contabilmente un
investimento; se però un concorrente esce sul mercato prima e con un
prodotto più veloce, più potente e con prestazioni più valide ( e tutti
sanno quanto questo sia frequente ), lo spazio di competitività si
annulla, e cessa di esistere la breve finestra temporale che avrebbe
potuto assicurare profitti. La voce "investimento" va tristemente
derubricata in "spesa" o "costo", pesante come un macigno sul conto
economico dell'esercizio corrente. La stessa cosa può dirsi quando si fa
un investimento per prodotti o servizi che non vengono più richiesti, o
lo sono meno del previsto, da un mercato che sembra apparentemente molto
più capriccioso e mutevole. Ne sanno qualcosa i produttori di automobili,
di elettrodomestici, di prodotti di abbigliamento, che vedono le vendite
improvvisamente crollare e crescere paurosamente i magazzini dei prodotti
finiti.
Un marziano che con un'astronave atterrasse sul nostro pianeta e
osservasse le strade piene di automobili, le vetrine dei negozi
straripanti di merci di ogni tipo, i ristoranti affollati, la gente ben
vestita, le località alla moda frequentate, trarrebbe della situazione
economica dei paesi industrializzati un'impressione ben diversa di quella
che noi leggiamo sui giornali; e potrebbe legittimamente chiedersi, quale
crisi? Se fosse persona di buon senso e non sapesse di economia e
di finanza, potrebbe addirittura pensare che qualche anno di pausa nella
frenetica attività di produzione di oggetti di ogni tipo non farebbe
altro che bene, al traffico, al degrado delle città, all'inquinamento,
allo stress dei dirigenti, in una parola, alla salute piuttosto malandata
del pianeta. E neppure una riduzione temporanea nella dieta decisamente
ipercalorica delle masse di sedentari impiegati che passano il loro tempo,
immobili, con gli occhi puntati a guardare lo schermo di un computer,
potrebbe sembrargli particolarmente drammatica.
La spiegazione di questo paradosso è che le crisi sono diventate sempre
più invisibili perché non riguardano tanto le persone in carne e ossa,
quelle che il codice civile definisce le persone fisiche, ma un'altra
specie, quella delle persone giuridiche, imprese, amministrazioni
pubbliche, organizzazioni in genere. Queste sì che stanno veramente male,
in quasi tutti i paesi del mondo.
Dall'ottocento fino ai primi del novecento, in tutti i paesi che stavano
avviando il processo di industrializzazione, come l'Inghilterra, la
Germania, l'America, non c'era bisogno di aspettare le crisi economiche
per accorgersi dei segni diffusi della povertà delle masse di persone
fisiche, povertà che non era limitata ai disoccupati ma che riguardava
tutti, occupati e non. Quando poi la crisi veniva, come nel 1929 negli
Stati Uniti, gli effetti erano ben evidenti e palpabili, e si traducevano
in disperazione e fame per milioni di uomini, donne, bambini.
Ma, si dirà, i lavoratori dipendenti sono purtroppo anche oggi sottoposti
al rischio di perdere il posto. è vero, però è un rischio di solito
ampiamente compensato da tutti gli ammortizzatori sociali inventati in
anni di stato assistenziale; e, per molti, la pratica del secondo o terzo
lavoro costituisce pur sempre una sorta di assicurazione contro la perdita
del primo. La sofferenza principale non stà tanto nel rischio di perdere
col posto i mezzi di sussistenza, quanto di perdere la propria identità e
il proprio ruolo sociale, che per la massima parte delle persone è
sinonimo di posizione aziendale e professionale.
I veri poveri e degni di compassione sono le cosiddette persone giuridiche,
in particolare le aziende, che perdono soldi e coloro che per il
codice civile dovrebbero essere i padroni delle stesse, ossia gli
azionisti, i possessori del capitale. Questi hanno la disgrazia di
portarsi dietro decenni di impopolarità connessa alla brutta parola "profitto", che ha fatto
sì che alle imprese e ai capitalisti
restasse affibbiata una immagine di rapina e di pericolosità sociale,
ahimè, difficile da superare, anche negli anni prossimi al 2000. è un
clima che certo Karl Marx non aveva previsto, di capitalisti-padroni
impoveriti, bistrattati e sfruttati (o addirittura derisi come "parco
buoi") a vantaggio di "lavoratori " che nuotano nel
benessere e il cui stipendio è una variabile del tutto indipendente dalla
prosperità dell'impresa.
Per cercare di rimediare a questo clima non favorevole, gli imprenditori
hanno cercato di "epater les bourgeois", spargendo la voce che una impresa che
perde distrugge ricchezza, il che vorrebbe dire che negli ultimi anni esse
hanno impoverito il paese, ma purtroppo o per fortuna, anche questo non è
vero. In realtà un'impresa che perde si limita a non remunerare uno solo
dei fattori produttivi, il capitale, forse anche perché ha remunerato
troppo l'altro fattore, il lavoro. In ogni caso anche una impresa che
perde può generare ricchezza, nella misura in cui continua a produrre
valore aggiunto, che in prima approssimazione è la somma del costo
del lavoro e del profitto. Ed è il valore aggiunto la misura della
ricchezza generata (sempre che si voglia accettare una unità di misura
prettamente economica), a livello di azienda o di intero paese.
Il problema delle imprese alla fine del secondo millennio è quindi
duplice. Da una parte, devono ricuperare capacità di remunerare tutti i
fattori della produzione, sia il lavoro che il capitale, perché il
problema non è solo quello di generare ricchezza, ma sopratutto di
assicurare sopravvivenza, benessere e sviluppo per gli anni futuri.
Dall'altra, esse devono conquistarsi nella pubblica opinione una nuova
patente di nobiltà che qualifichi la loro azione, diventando "l'officina" dove si inventa, si progetta e si costruisce il futuro. E
mai come oggi il futuro è stato così incerto e tutto da inventare e da
costruire.
Negli anni 90 con sempre maggior frequenza hanno cominciato a verificarsi
due ordini di eventi, che hanno messo a dura prova la capacità delle
imprese non tanto di progettare il futuro, quanto di continuare ad averlo.
Il primo è che i cambiamenti avvengono sempre di più sotto forma di
discontinuità col passato.
Il secondo è che gli investimenti necessari per avviare un nuovo prodotto
sono sempre più indipendenti dai volumi produttivi ed il loro
ammortamento costituisce una parte preponderante del costo di prodotto. Il
che vuol dire che basta che le vendite non raggiungano le quantità
previste o anche solo si diluiscano su tempi più lunghi per decretare un
pesante insuccesso.
Si tratta di due virus contro i quali le metodologie e i ferri del
mestiere tradizionali sono poco efficaci; per fronteggiarli bisogna
escogitare nuovi rimedi.
In realtà, le aziende, malgrado casi di arretratezza, ormai da
considerarsi patologici ma anche sempre più limitati, sono tutto sommato
preparate a fronteggiare cambiamenti anche rapidi che avvengano però con
continuità. In tali casi infatti le moderne metodologie
ispirate a una corretta gestione, sia operativa che finanziaria, danno
risposte soddisfacenti e adeguate: in un processo di cambiamento
continuo il problema principale è aumentare la velocità
dell'azienda.
Diminuire il "time to market", ridurre il
capitale circolante, sia diminuendone l'entità' lungo tutta la catena del
valore ( ad esempio con processi just-in-time di alimentazione delle linee
produttive ), sia accelerandone la circolazione ( gestendo opportunamente
le procedure di pagamento e di incasso ), o anche più sofisticate
tecniche come l'ABM (Activity Based Management), che tendono a
togliere spazio e a delegittimare attività e funzioni che non siano
direttamente correlate a quanto il cliente è disposto a valorizzare
(ossia a comprare e a pagare), sono pratiche valide e direi necessarie
ormai in ogni azienda correttamente gestita.
Tutte queste cose si ispirano a un criterio di semplificazione, di
alleggerimento, ben espresso dal titolo di un articolo di un autore
americano "Reengineering Work: Dont' Automate, Obliterate".
Tutto bene, senz'altro, però nessuna di queste tecniche consente alle
aziende di superare i rischi delle discontinuità in agguato, dovute
all'ingresso di nuovi concorrenti, all'adozione di nuove tecnologie, al
propagarsi di nuove mode, che rendono il mercato indifferente a prodotti
che andavano per la maggiore.
Per quanto concerne il secondo virus, processi sempre più automatizzati
hanno fatto certamente scendere i costi diretti, al prezzo però di un
investimento a monte estremamente rilevante. Inoltre acquistano peso
crescente gli investimenti immateriali in pubblicita', in servizi di
informazione, di diagnostica, di assistenza, che devono spesarsi su un
ciclo di vita dei prodotti che diventa sempre più breve, al di là del
quale difficilmente, a differenza di una volta, si riesce ad avere una
sopravvivenza prolungata. I prodotti moderni tendono ad assumere di colpo,
dopo il periodo di gloria iniziale, un'apparenza decrepita e superata di
ferrivecchi e muoiono in modo irreversibile.
Chi ha seguito i recenti annunci di personal computer portatili, ha visto
che si è passati, in meno di due anni, tra il 1991 e il 1993, dai
"lap-top " o computer da "grembo" ai "note-book" o
computer "block-notes"
di incredibile piccolezza; e l'uscita dei secondi ha conferito
immediatamente ai primi l'apparenza di oggetti invendibili e
impresentabili. Nel campo Hi-Fi l'introduzione dei dischi ottici ha reso
immediatamente obsolete tutte le apparecchiature basate sui dischi lp a
registrazione meccanica; e ha fatto sì che nessuno sia più disposto ad
accettare nella riproduzione sonora neppure il più lieve fruscio. La
introduzione degli orologi elettronici ha messo fuori mercato tutta
l'industria, ricchissima di tradizioni, degli orologi meccanici e ha
abituato i consumatori a prestazioni di astronomica precisione nella
misura del tempo, di gran lunga superiori alle necessità pratiche.
Come si vede molte sono le discontinuità che segnano una netta rottura
col passato, e in breve tempo impongono nuovi standard, nuovi livelli di
prestazioni, e generano nuovi gusti e nuove imprevedibili esigenze, che
rendono inaccettabile la generazione di prodotti immediatamente
precedente. Ma anche quando non si verifica una così netta
discontinuità, la durata di un modello è sempre più breve e, quanto
più si contrae il tempo di vita, di altrettanto va allargato lo spazio di
mercato, perché nell'economia globalizzata lo spazio e il tempo diventano
intercambiabili. Ma lanciare un prodotto su scala mondiale vuol dire
affrontare grandi e concentrati investimenti, non avere il tempo di
correggere gli errori, accrescere il rischio di non ricavare un adeguato
ritorno e quindi di una debacle commerciale, tecnica e finanziaria.
Tutti questi fenomeni rientrano e hanno la loro causa profonda nella
crescita della componente immateriale e impalpabile del valore che
un prodotto o un servizio incorporano come elemento essenziale, valore che
viene recepito dal cliente e costituisce quanto questi è disposto a
pagare.
Alcuni osservatori, che non si sono resi conto della importanza epocale di
questa mutazione, vedono nella crescita della immaterialità una forma
deteriore, più fragile, di sviluppo economico. Essi preferirebbero e si
sentirebbero più tranquilli con le officine e le ciminiere, non credono
in una economia dei servizi; ma sopratutto non si rendono conto che, da
sempre, anche i più materiali dei prodotti hanno potuto diffondersi in
quanto " servivano
", ossia potevano fornire un servizio. Ma l'estrazione del servizio da
un prodotto materiale era nella maggior parte dei casi lasciata al
consumatore, il quale riusciva a cavarsela per la minore complessità dei
prodotti di una volta, o perché il loro utilizzo era conforme al suo
livello di cultura e di preparazione.
è nella componente immateriale del prodotto che si annidano i rischi ma
anche le opportunità di importanti traumatiche discontinuità. Le
discontinuità dovute a bruschi cambiamenti della componente materiale
trovano la loro causa più comune nelle tecnologie, come è successo ad
esempio per i prodotti dell'ufficio con la sostituzione della meccanica
con la elettronica, Esse sono quindi importanti, ma ancora relativamente
rare, o per lo meno non avvengono tutti i giorni. Ma è la componente
immateriale quella dove le possibili varianti sono infinite e dove la
fantasia e la creatività, direi allo stato puro, possono più
spontaneamente applicarsi.
Tipico è ad esempio il caso degli orologi Swatch che hanno salvato
l'industria svizzera degli orologi da morte pressoché certa, dopo che gli
orologi elettronici giapponesi della Seiko e di altre case avevano ridotto
al lumicino la quota di mercato degli svizzeri. Il marchio Swatch non
introdusse nessuna particolare o significativa innovazione tecnologica,
esso si limitò ad adottare la microelettronica di tutti gli altri
concorrenti, ma diede all'orologio una nuova dimensione estetica e
fantastica, che costituì una discontinuità col passato non minore di
quella rappresentata dalla tecnologia, ora però di natura assolutamente
immateriale.
Ma se nel caso degli Swatch si è privilegiato un valore estetico, molto
più frequenti sono i prodotti nei quali le funzionalità essenziali sono
dovute alla componente immateriale: è il caso ad esempio
dell'informatica, dove la componente materiale o hardware dei prodotti
segue un suo ciclo di sviluppo rapidissimo ma relativamente prevedibile,
mentre la componente immateriale o software è sede delle più
straordinarie innovazioni, molte delle quali con caratteristiche di
rottura col passato. E sono proprio le aziende che hanno saputo innovare
in questi spazi ad essersi create le condizioni di maggiore successo e di
più sicuro sviluppo.
Quasi nessuna delle grandi imprese, che denunciano situazioni di crisi
anche gravi, ha dimostrato interesse a pensare a una diversa idea
dei prodotti e dei mercati , in altre parole a concepire creativamente una
innovativa visione del mondo e del proprio spazio competitivo, per
superare le difficoltà. Queste vengono immancabilmente definite "
congiunturali " e la base della strategia si riassume nell'attesa che
la bufera passi e ritorni il bel tempo. Al massimo si coglie la
opportunità della crisi per operare un processo di dimagrimento,
attuandolo, o in modo grossolano (.eliminando tutte le persone possibili
sulla base dei loro requisiti di pensionabilità o di licenziabilità ),
oppure, in modo più scientifico, utilizzando gli strumenti indicati nel
paragrafo precedente, prima di tutto il "Business Processes
Reengineering", metodologia di gran moda, nella quale si
ripongono grandi speranze, sia da parte delle aziende utenti, sia e
sopratutto, da parte delle società di consulenza, che sperano con questa
offerta di risalire a loro volta la china.
Purtroppo in genere il primo tipo di cura lascia l'azienda più magra, sì,
ma in condizioni disastrate, sia dal punto di vista operativo ( è
difficile infatti che tagliando gli arti ad un elefante si ottenga un
animale più snello e agile ), che del clima morale ; il secondo, se ha
successo, rende certamente l'azienda più efficiente, però si corre il
rischio, nella foga di perseguire il risultato, di buttar via il bambino
assieme all'acqua sporca, nel senso di alienare quelle risorse che
potrebbero essere preziose per esplorare e perseguire nuovi orizzonti di
opportunità.
Molte aziende hanno invece già cominciato a capire che il mondo di domani
sarà radicalmente diverso da quello di ieri e che i mutamenti non saranno
come i fenomeni metereologici, rispetto ai quali è giocoforza assumere un
atteggiamento passivo, in quanto prevedibili in parte ma certamente non
determinabili. Essi saranno invece forse più difficilmente prevedibili,
però sicuramente determinabili; e la loro prevedibilità finirà col
dipendere dalla determinazione con la quale un'azienda si porrà nella
condizione spirituale di voler dare un contributo significativo alla
costruzione del futuro.
Negli anni 80 lo sforzo competitivo delle aziende venne orientato
prevalentemente ad acquisire spazi nell'ambito di mercati esistenti e ben
definiti. Ma la crisi dilagante dimostra che questi spazi si stanno
restringendo e limitarsi a competere in questi vuol dire porre serie
ipoteche sulle possibilità di futuri sviluppi, ed essere costretti
ad operare in un clima di esasperata tensione su obiettivi di breve
termine per ricuperare sempre più ridotti margini di redditività con
difficoltà crescenti.
Negli anni 90 l'attenzione del top management delle aziende più
intelligenti e innovative dovrà essere orientata a individuare nuovi
scenari e a suscitare la capacità di creare nuovi e in gran parte non
convenzionali spazi di competizione, nei quali la dimensione non sia tanto
o soltanto dipendente dalla ampiezza totale del mercato, quanto dalla
natura di "spazio libero" che l'azienda avrà saputo crearsi.
Di solito il pensiero corrente attribuisce alle grandi aziende scarse
possibiltà di essere innovative in modo rivoluzionario e questo attributo
è riconosciuto alle piccole e medie aziende. In realtà anche nelle
grandi aziende esistono risorse umane e ovviamente capacità tecniche
potenzialmente dotate e capaci di aprire nuovi spazi, però in
genere esse riescono con difficoltà estrema a perforare gli strati
impermeabili rappresentati dalla dominante burocrazia aziendale. In molti
casi le persone più creative vengono isolate in settori appositamente
predisposti per pensare al nuovo, sia che essi siano divisioni per
prodotti avanzati, ovvero laboratori di ricerca, o altre forme di "incubatrici". Ma non si pensa che l'isolamento non
è di solito un
buon propulsore di innovazioni e sopratutto non si tiene conto del
fatto che in tal modo si rinuncia in pratica ad orientare le "core
competencies" dell'intera azienda verso il nuovo, ossia a trasformare
l'immaginazione individuale in immaginazione e creatività collettiva.
Purtroppo le più consolidate aziende del mondo occidentale sono schiave
di una cultura manageriale ed organizzativa che ha le sue radici
nell'opera di F.W. Taylor "The Principles of Scientific Management
" e nella visione di Max Weber della burocrazia come struttura altamente
razionale. Tali concezioni meccanicistiche della organizzazione e del suo
funzionamento tendono a privilegiare le attività codificabili in
procedure e i valori quantificabili in termini oggettivi, quali la
riduzione dei costi, il miglioramento del ritorno di un investimento, la
crescita della quota di mercato. Esse portano di fatto a non
utilizzare la totalità delle risorse creative esistenti nella
organizzazione, ovunque siano collocate; inoltre privilegiano il momento
della misura dei risultati e del loro controllo, ma non danno contributi
nel comprendere e favorire le fasi a monte del processo creativo.
Molte aziende vivono ancora del patrimonio di valori introdotto dal
fondatore nel periodo eroico immediatamente successivo alla nascita
dell'impresa, che si è mantenuto negli anni, talvolta però attenuandosi
sempre di più col passare del tempo e delle successive generazioni di
manager. è il caso della Olivetti e dello spirito di Camillo e di Adriano
Olivetti, della Pinin Farina e del suo omonimo fondatore, della IBM e di
Thomas Watson sr., della Apple e del suo fondatore Steeve Jobs e di molte
altre aziende, delle quali si ricorda tuttora il ruolo di propagatrici di
cultura e di ricerca incessante di spazi di innovazione.
In questo libro mi propongo di presentare e illustrare i fondamenti di una
nuova strategia, che ritengo legittimamente di proporre alle imprese per
aiutarle a navigare con successo nel tempestoso mare degli anni 90 e
dell'inizio del terzo millennio.
è una strategia basata su scenari e architetture e penso che i nomi
stessi, anche a monte della trattazione che sarà fatta nelle pagine
seguenti, evochino un approccio sistemico e costruttivistico, che ritengo
essere i concetti ispiratori di tale prassi.
Ma la sua validità si fonda sopratutto sul distillato di una esperienza,
ormai trentennale, costruita, negli anni 60 e 70 dirigendo uno dei più
innovativi gruppi di progetto e di ricerca, quello dell'Olivetti, (che
seppe realizzare il primo personal computer e la prima macchina per
scrivere elettronica del mondo), e dando successivamente negli anni 80 e
90, attraverso l'Elea, supporto di consulenza per l'innovazione e le
strategie alle aziende nostre clienti, in periodi di grande turbolenza.
Oggi questi concetti si vanno diffondendo nel mondo e danno luogo a
suggestive rappresentazioni delle aziende come "Learning Organisation", ovvero come "Knowledge-Creating Company", volendo con questi termini significare
il superamento del modello burocratico e l'affermazione del valore della
conoscenza e della capacità creativa. I paesi più attivi
nell'elaborazione di questa nuova cultura d'impresa sono gli Stati Uniti e
il Giappone, sopratutto ad opera delle loro università e delle società di
consulenza manageriale. Non c'è dubbio però che sono le aziende
giapponesi ad essere quasi sempre assunte come punto di riferimento, per
il successo che hanno ottenuto e la immagine mondiale di affidabilità e
di qualità che hanno saputo diffondere, occupando proprio quegli spazi
che le aziende occidentali non avevano saputo presidiare, sopratutto là
dove si trattava di tener conto delle trascurate esigenze dei
clienti.
Io sono però convinto che la spinta propulsiva derivante da queste idee
vada oggi esaurendosi, e che sia necessaria una visione più ampia , che
faccia certamente tesoro dei risultati concettuali e metodologici
acquisiti con la "Total Quality", ma si spinga più in là, e
metta le aziende in grado di affrontare i nuovi complessi problemi che la
società civile pone davanti a tutti noi. In particolare sono convinto che
le aziende hanno non solo bisogno di comprendere come diventare
creative e innovative, ma anche e sopratutto di scoprire in quale
direzione orientare la creatività e la innovazione Non solo quindi
capire come fare, ma
cosa concretamente fare. In questa direzione poco è stato
fatto e uno degli scopi di questo libro è proprio colmare questa lacuna.
Volendo ritrovare delle radici al modello di strategia che in queste
pagine viene presentato, mi fa piacere pensare che esse risiedano nella
visione di impresa che Adriano Olivetti sviluppò negli anni del
dopoguerra e che, a mio avviso, precorse i tempi. Già in quegli anni
l'espansione e il successo mondiale della Olivetti dimostrarono che una
strategia basata, da una parte, sulla valorizzazione delle capacità
creative di tutti i membri di una organizzazione, e, dall'altra, su una
fabbrica generatrice di armonia e di bellezza attraverso i suoi prodotti,
poteva essere un'arma vincente.
Mi auguro
quindi che le imprese che vorranno adottare le strategia degli scenari e
delle architetture possano diventare creatrici nel mondo di bellezza e di
armonia, così come lo fu la Olivetti di Adriano.
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