Capitolo primo.
Profitto addio.

 

 

1. Introduzione.

            Flessibilità,  organizzazione snella, attitudine al cambiamento, internazionalizzazione, eccellenza nella qualità, sono le prescrizioni e le ricette che i guru del management  elargiscono a piene mani alle imprese nello sconfortante panorama dell'ultimo decennio del ventesimo secolo, nella speranza di alleviare le sofferenze di un numero sempre più elevato di malati gravi e gravissimi la cui sopravvivenza è molto incerta.

            Automobili, chimica, acciaio, informatica, elettronica civile, elettrodomestici, tessili, robotica, cantieristica navale, trasporti aerei, navali, terrestri, tutto è in crisi e sembra che la graduatoria penalizzi particolarmente i grandi e grossi, cosa che contribuisce a rendere più lugubre l'atmosfera. Non si può non pensare che, solo fino a pochi anni fa, essere grossi o diventarlo sembrava l'unico obiettivo di quasi tutti i capi di azienda, indipendentemente dalla disponibilità di risorse finanziarie, dalla tipologia dei prodotti, dalla natura dei mercati, in questo confortati dalla inossidabile certezza di tutta la stampa economica, nazionale e internazionale, per la quale il motto "big is beautiful" aveva il valore di un dogma.

            Eppure i sintomi di stanchezza e di malessere non mancavano, era obiettivamente difficile che certi ritmi di sviluppo potessero continuare all'infinito, che le crescenti e stridenti discrasie e contraddizioni della società industrializzata alla fine non venissero al pettine, che la gente non si accorgesse del divario crescente tra produzione di ricchezza economica e benessere reale, e in fondo non finisse con l'essere presa da una forma di noia mortale, di "taedium vitae", per un mondo in costante peggioramento ma in cui, per andar bene, tutto doveva sempre crescere, ma senza alcun ricambio di valori.

            C'è stato il problema del crollo dei muri; e quello di Berlino non è stato il solo, anzi sembra che il fenomeno si generalizzi e si estenda. La gente pare aver capito che anche le più granitiche strutture, opprimenti ma anche protettive, possono essere abbattute e che senza di esse si può vivere meglio. Dall'Unione Sovietica all'IBM, dal sistema dei partiti italiano all'unione monetaria europea, dal centralismo degli stati alle organizzazioni aziendali, siamo in presenza di una vasta azione di destrutturazione che sembra non risparmiare nessuno. Inoltre tutti questi vasti movimenti, anche se vanno tutti in una certa direzione, non sono per nulla eventi graduali e prevedibili, tanto è vero che nessuno li aveva anche solo lontanamente immaginati.

          Ma limitandosi alle aziende è assolutamente certo che la crisi che attanaglia la maggior parte di esse non è congiunturale ma profondamente strutturale. Prova ne è che possiamo dire, in un certo senso, trattarsi di un fenomeno non tanto da "conto profitti e perdite ", ma piuttosto da  " stato patrimoniale ", in quanto sono state, alla grande, distrutte risorse un po' dappertutto. Infatti il vero problema di oggi è proprio questo: gran parte degli investimenti fatti negli anni passati in ricerca e sviluppo, scalate, acquisizioni, joint-venture, si sono volatilizzati perché il mondo è andato in una direzione diversa dal previsto. Questo fenomeno ha interessato in particolare i grandi gruppi che si sono ritrovati quasi tutti, pur operando in settori molto differenziati, dall'auto, all'informatica, alla chimica, alle linee aeree, ecc., fortemente indebitati alla fine del ciclo espansivo degli anni 80. E come nel gioco del poker alla mossa "vedi", all'inizio del nuovo ciclo economico avviato con gli anni 90, si scopre che degli investimenti fatti non si riesce più a trovare traccia, almeno per quanto concerne la colonna dell'attivo del bilancio, restando viva, ahimè, quella del passivo.

              Per spiegare che cosa è successo bisogna ricordare che quando si fa una spesa o si destinano risorse ad un determinato obiettivo, anche se nel bilancio tali voci sono catalogate come "investimenti", se lo siano davvero lo si sa solo dopo.

            Ad esempio nel campo dell'informatica, dove la vita dei prodotti è brevissima, il progetto di un personal computer è contabilmente un investimento; se però un concorrente esce sul mercato prima e con un prodotto più veloce, più potente e con prestazioni più valide ( e tutti sanno quanto questo sia frequente ), lo spazio di competitività si annulla, e cessa di esistere la breve finestra temporale che avrebbe potuto assicurare profitti. La voce "investimento" va tristemente derubricata in "spesa" o "costo", pesante come un macigno sul conto economico dell'esercizio corrente. La stessa cosa può dirsi quando si fa un investimento per prodotti o servizi che non vengono più richiesti, o lo sono meno del previsto, da un mercato che sembra apparentemente molto più capriccioso e mutevole. Ne sanno qualcosa i produttori di automobili, di elettrodomestici, di prodotti di abbigliamento, che vedono le vendite improvvisamente crollare e crescere paurosamente i magazzini dei prodotti finiti.

 

2. Privata ricchezza e pubblica povertà.

            Un marziano che con un'astronave atterrasse sul nostro pianeta e osservasse le strade piene di automobili, le vetrine dei negozi straripanti di merci di ogni tipo, i ristoranti affollati, la gente ben vestita, le località alla moda frequentate, trarrebbe della situazione economica dei paesi industrializzati un'impressione ben diversa di quella che noi leggiamo sui giornali; e potrebbe legittimamente chiedersi, quale crisi?  Se fosse persona di buon senso e non sapesse di economia e di finanza, potrebbe addirittura pensare che qualche anno di pausa nella frenetica attività di produzione di oggetti di ogni tipo non farebbe altro che bene, al traffico, al degrado delle città, all'inquinamento, allo stress dei dirigenti, in una parola, alla salute piuttosto malandata del pianeta. E neppure una riduzione temporanea nella dieta decisamente ipercalorica delle masse di sedentari impiegati che passano il loro tempo, immobili, con gli occhi puntati a guardare lo schermo di un computer, potrebbe sembrargli particolarmente drammatica.

            La spiegazione di questo paradosso è che le crisi sono diventate sempre più invisibili perché non riguardano tanto le persone in carne e ossa, quelle che il codice civile definisce le persone fisiche, ma un'altra specie, quella delle persone giuridiche, imprese, amministrazioni pubbliche, organizzazioni in genere. Queste sì che stanno veramente male, in quasi tutti i paesi del mondo.

            Dall'ottocento fino ai primi del novecento, in tutti i paesi che stavano avviando il processo di industrializzazione, come l'Inghilterra, la Germania, l'America, non c'era bisogno di aspettare le crisi economiche per accorgersi dei segni diffusi della povertà delle masse di persone fisiche, povertà che non era limitata ai disoccupati ma che riguardava tutti, occupati e non. Quando poi la crisi veniva, come nel 1929 negli Stati Uniti, gli effetti erano ben evidenti e palpabili, e si traducevano in disperazione e fame per milioni di uomini, donne, bambini.

            Ma, si dirà, i lavoratori dipendenti sono purtroppo anche oggi sottoposti al rischio di perdere il posto. è vero, però è un rischio di solito ampiamente compensato da tutti gli ammortizzatori sociali inventati in anni di stato assistenziale; e, per molti, la pratica del secondo o terzo lavoro costituisce pur sempre una sorta di assicurazione contro la perdita del primo. La sofferenza principale non stà tanto nel rischio di perdere col posto i mezzi di sussistenza, quanto di perdere la propria identità e il proprio ruolo sociale, che per la massima parte delle persone è sinonimo di posizione aziendale e professionale.

            I veri poveri e degni di compassione sono le cosiddette persone giuridiche, in particolare le aziende, che perdono soldi  e coloro che per il codice civile dovrebbero essere i padroni delle stesse, ossia gli azionisti, i possessori del capitale. Questi hanno la disgrazia di portarsi dietro decenni di impopolarità connessa alla brutta parola "profitto", che ha fatto sì che alle imprese e ai capitalisti restasse affibbiata una immagine di rapina e di pericolosità sociale, ahimè, difficile da superare, anche negli anni prossimi al 2000. è un clima che certo Karl Marx non aveva previsto, di capitalisti-padroni impoveriti, bistrattati e sfruttati (o addirittura derisi come "parco buoi") a vantaggio di "lavoratori " che nuotano nel benessere e il cui stipendio è una variabile del tutto indipendente dalla prosperità dell'impresa.

            Per cercare di rimediare a questo clima non favorevole, gli imprenditori hanno cercato di "epater les bourgeois", spargendo la voce che una impresa che perde distrugge ricchezza, il che vorrebbe dire che negli ultimi anni esse hanno impoverito il paese, ma purtroppo o per fortuna, anche questo non è vero. In realtà un'impresa che perde si limita a non remunerare uno solo dei fattori produttivi, il capitale, forse anche perché ha remunerato troppo l'altro fattore, il lavoro. In ogni caso anche una impresa che perde può generare ricchezza, nella misura in cui continua a produrre valore aggiunto, che in prima approssimazione è la somma  del costo del lavoro e del profitto. Ed è il valore aggiunto la misura della ricchezza generata (sempre che si voglia accettare una unità di misura prettamente economica), a livello di azienda o di intero paese.

            Il problema delle imprese alla fine del secondo millennio è quindi duplice. Da una parte, devono ricuperare capacità di remunerare tutti i fattori della produzione, sia il lavoro che il capitale, perché il problema non è solo quello di generare ricchezza, ma sopratutto di assicurare sopravvivenza, benessere e sviluppo per gli anni futuri. Dall'altra, esse devono conquistarsi nella pubblica opinione una nuova patente di nobiltà che qualifichi la loro azione, diventando "l'officina" dove si inventa, si progetta e si costruisce il futuro. E mai come oggi il futuro è stato così incerto e tutto da inventare e da costruire.

 

3. Due nuovi virus in agguato contro la salute aziendale.

            Negli anni 90 con sempre maggior frequenza hanno cominciato a verificarsi due ordini di eventi, che hanno messo a dura prova la capacità delle imprese non tanto di progettare il futuro, quanto di continuare ad averlo.

            Il primo è che i cambiamenti avvengono sempre di più sotto forma di discontinuità col passato.

            Il secondo è che gli investimenti necessari per avviare un nuovo prodotto sono sempre più indipendenti dai volumi produttivi ed il loro ammortamento costituisce una parte preponderante del costo di prodotto. Il che vuol dire che basta che le vendite non raggiungano le quantità previste o anche solo si diluiscano su tempi più lunghi per decretare un pesante insuccesso.

             Si tratta di due virus contro i quali le metodologie e i ferri del mestiere tradizionali sono poco efficaci; per fronteggiarli bisogna escogitare nuovi rimedi.

            In realtà, le aziende, malgrado casi di arretratezza, ormai da considerarsi patologici ma anche sempre più limitati, sono tutto sommato preparate a fronteggiare cambiamenti anche rapidi che avvengano però con continuità. In tali casi  infatti le moderne metodologie ispirate a una corretta gestione, sia operativa che finanziaria, danno risposte soddisfacenti e adeguate: in un processo di cambiamento continuo il problema principale è aumentare la velocità dell'azienda.

            Diminuire il "time to market", ridurre il capitale circolante, sia diminuendone l'entità' lungo tutta la catena del valore ( ad esempio con processi just-in-time di alimentazione delle linee produttive ), sia accelerandone la circolazione ( gestendo opportunamente le procedure di pagamento e di incasso ), o anche più sofisticate tecniche come l'ABM (Activity Based Management), che tendono a togliere spazio e a delegittimare attività e funzioni che non siano direttamente correlate a quanto il cliente è disposto a valorizzare (ossia a comprare e a pagare), sono pratiche valide e direi necessarie ormai in ogni azienda correttamente gestita.

            Tutte queste cose si ispirano a un criterio di semplificazione, di alleggerimento, ben espresso dal titolo di un articolo di un autore americano "Reengineering Work: Dont' Automate, Obliterate" (1). Tutto bene, senz'altro, però nessuna di queste tecniche consente alle aziende di superare i rischi delle discontinuità in agguato, dovute all'ingresso di nuovi concorrenti, all'adozione di nuove tecnologie, al propagarsi di nuove mode, che rendono il mercato indifferente a prodotti che andavano per la maggiore.

            Per quanto concerne il secondo virus, processi sempre più automatizzati hanno fatto certamente scendere i costi diretti, al prezzo però di un investimento a monte estremamente rilevante. Inoltre acquistano peso crescente gli investimenti immateriali in pubblicita', in servizi di informazione, di diagnostica, di assistenza, che devono spesarsi su un ciclo di vita dei prodotti che diventa sempre più breve, al di là del quale difficilmente, a differenza di una volta, si riesce ad avere una sopravvivenza prolungata. I prodotti moderni tendono ad assumere di colpo, dopo il periodo di gloria iniziale, un'apparenza decrepita e superata di ferrivecchi e muoiono in modo irreversibile.

            Chi ha seguito i recenti annunci di personal computer portatili, ha visto che si è passati, in meno di due anni, tra il 1991 e il 1993, dai "lap-top " o computer da "grembo" ai "note-book" o computer "block-notes" di incredibile piccolezza; e l'uscita dei secondi ha conferito immediatamente ai primi l'apparenza di oggetti invendibili e impresentabili. Nel campo Hi-Fi l'introduzione dei dischi ottici ha reso immediatamente obsolete tutte le apparecchiature basate sui dischi lp a registrazione meccanica; e ha fatto sì che nessuno sia più disposto ad accettare nella riproduzione sonora neppure il più lieve fruscio. La introduzione degli orologi elettronici ha messo fuori mercato tutta l'industria, ricchissima di tradizioni, degli orologi meccanici e ha abituato i consumatori a prestazioni di astronomica precisione nella misura del tempo, di gran lunga superiori alle necessità pratiche.

            Come si vede molte sono le discontinuità che segnano una netta rottura col passato, e in breve tempo impongono nuovi standard, nuovi livelli di prestazioni, e generano nuovi gusti e nuove imprevedibili esigenze, che rendono inaccettabile la generazione di prodotti immediatamente precedente. Ma anche quando non si verifica una così netta discontinuità, la durata di un modello è sempre più breve e, quanto più si contrae il tempo di vita, di altrettanto va allargato lo spazio di mercato, perché nell'economia globalizzata lo spazio e il tempo diventano intercambiabili. Ma lanciare un prodotto su scala mondiale vuol dire affrontare grandi e concentrati investimenti, non avere il tempo di correggere gli errori, accrescere il rischio di non ricavare un adeguato ritorno e quindi di una debacle commerciale, tecnica e finanziaria.

            Tutti questi fenomeni rientrano e hanno la loro causa profonda nella crescita della componente immateriale e impalpabile del valore  che un prodotto o un servizio incorporano come elemento essenziale, valore che viene recepito dal cliente e costituisce quanto questi è disposto a pagare.

            Alcuni osservatori, che non si sono resi conto della importanza epocale di questa mutazione, vedono nella crescita della immaterialità una forma deteriore, più fragile, di sviluppo economico. Essi preferirebbero e si sentirebbero più tranquilli con le officine e le ciminiere, non credono in una economia dei servizi; ma sopratutto non si rendono conto che, da sempre, anche i più materiali dei prodotti hanno potuto diffondersi in quanto " servivano ", ossia potevano fornire un servizio. Ma l'estrazione del servizio da un prodotto materiale era nella maggior parte dei casi lasciata al consumatore, il quale riusciva a cavarsela per la minore complessità dei prodotti di una volta, o perché il loro utilizzo era conforme al suo livello di cultura e di preparazione.

            è nella componente immateriale del prodotto che si annidano i rischi ma anche le opportunità di importanti traumatiche discontinuità. Le discontinuità dovute a bruschi cambiamenti della componente materiale trovano la loro causa più comune nelle tecnologie, come è successo ad esempio per i prodotti dell'ufficio con la sostituzione della meccanica con la elettronica, Esse sono quindi importanti, ma ancora relativamente rare, o per lo meno non avvengono tutti i giorni. Ma è la componente immateriale quella dove le possibili varianti sono infinite e dove la fantasia e la creatività, direi allo stato puro, possono più spontaneamente applicarsi.

            Tipico è ad esempio il caso degli orologi Swatch che hanno salvato l'industria svizzera degli orologi da morte pressoché certa, dopo che gli orologi elettronici giapponesi della Seiko e di altre case avevano ridotto al lumicino la quota di mercato degli svizzeri. Il marchio Swatch non introdusse nessuna particolare o significativa innovazione tecnologica, esso si limitò ad adottare la microelettronica di tutti gli altri concorrenti, ma diede all'orologio una nuova dimensione estetica e fantastica, che costituì una discontinuità col passato non minore di quella rappresentata dalla tecnologia, ora però di natura assolutamente immateriale.

             Ma se nel caso degli Swatch si è privilegiato un valore estetico, molto più frequenti sono i prodotti nei quali le funzionalità essenziali sono dovute alla componente immateriale: è il caso ad esempio dell'informatica, dove la componente materiale o hardware dei prodotti segue un suo ciclo di sviluppo rapidissimo ma relativamente prevedibile, mentre la componente immateriale o software è sede delle più straordinarie innovazioni, molte delle quali con caratteristiche di rottura col passato. E sono proprio le aziende che hanno saputo innovare in questi spazi ad essersi create le condizioni di maggiore successo e di più sicuro sviluppo.

 

4. Costruire una nuova visione del mondo.

            Quasi nessuna delle grandi imprese, che denunciano situazioni di crisi anche gravi, ha dimostrato interesse a pensare  a una diversa idea dei prodotti e dei mercati , in altre parole a concepire creativamente una innovativa visione del mondo e del proprio spazio competitivo, per superare le difficoltà. Queste vengono immancabilmente definite " congiunturali " e la base della strategia si riassume nell'attesa che la bufera passi e ritorni il bel tempo. Al massimo si coglie la opportunità della crisi per operare un processo di dimagrimento, attuandolo, o in modo grossolano (.eliminando tutte le persone possibili sulla base dei loro requisiti di pensionabilità o di licenziabilità ), oppure, in modo più scientifico, utilizzando gli strumenti indicati nel paragrafo precedente, prima di tutto il "Business Processes Reengineering", metodologia di gran moda, nella quale si ripongono grandi speranze, sia da parte delle aziende utenti, sia e sopratutto, da parte delle società di consulenza, che sperano con questa offerta di risalire a loro volta la china.

            Purtroppo in genere il primo tipo di cura lascia l'azienda più magra, sì, ma in condizioni disastrate, sia dal punto di vista operativo ( è difficile infatti che tagliando gli arti ad un elefante si ottenga un animale più snello e agile ), che del clima morale ; il secondo, se ha successo, rende certamente l'azienda più efficiente, però si corre il rischio, nella foga di perseguire il risultato, di buttar via il bambino assieme all'acqua sporca, nel senso di alienare quelle risorse che potrebbero essere preziose per esplorare e perseguire nuovi orizzonti di opportunità.(2)

            Molte aziende hanno invece già cominciato a capire che il mondo di domani sarà radicalmente diverso da quello di ieri e che i mutamenti non saranno come i fenomeni metereologici, rispetto ai quali è giocoforza assumere un atteggiamento passivo, in quanto prevedibili in parte ma certamente non determinabili. Essi saranno invece forse più difficilmente prevedibili, però sicuramente determinabili; e la loro prevedibilità finirà col dipendere dalla determinazione con la quale un'azienda si porrà nella condizione spirituale di voler dare un contributo significativo alla costruzione del futuro.

            Negli anni 80 lo sforzo competitivo delle aziende venne orientato prevalentemente ad acquisire spazi nell'ambito di mercati esistenti e ben definiti. Ma la crisi dilagante dimostra che questi spazi si stanno restringendo e limitarsi a competere in questi vuol dire porre serie ipoteche sulle possibilità di futuri sviluppi, ed essere costretti  ad operare in un clima di esasperata tensione su obiettivi di breve termine per ricuperare sempre più ridotti margini di redditività con difficoltà crescenti.

            Negli anni 90 l'attenzione del top management delle aziende più intelligenti e innovative dovrà essere orientata a individuare nuovi scenari e a suscitare la capacità di creare nuovi e in gran parte non convenzionali spazi di competizione, nei quali la dimensione non sia tanto o soltanto dipendente dalla ampiezza totale del mercato, quanto dalla natura di "spazio libero" che l'azienda avrà saputo crearsi.

            Di solito il pensiero corrente attribuisce alle grandi aziende scarse possibiltà di essere innovative in modo rivoluzionario e questo attributo è riconosciuto alle piccole e medie aziende. In realtà anche nelle grandi aziende esistono risorse umane e ovviamente capacità tecniche potenzialmente dotate  e capaci di aprire nuovi spazi, però in genere esse riescono con difficoltà estrema a perforare gli strati impermeabili rappresentati dalla dominante burocrazia aziendale. In molti casi le persone più creative vengono isolate in settori appositamente predisposti per pensare al nuovo, sia che essi siano divisioni per prodotti avanzati, ovvero laboratori di ricerca, o altre forme di "incubatrici". Ma non si pensa che l'isolamento non è di solito un buon propulsore di innovazioni e sopratutto  non si tiene conto del fatto che in tal modo si rinuncia in pratica ad orientare le "core competencies" dell'intera azienda verso il nuovo, ossia a trasformare l'immaginazione individuale in immaginazione e creatività collettiva.

            Purtroppo le più consolidate aziende del mondo occidentale sono schiave di una cultura manageriale ed organizzativa che ha le sue radici nell'opera di F.W. Taylor "The Principles of Scientific Management " e nella visione di Max Weber della burocrazia come struttura altamente razionale. Tali concezioni meccanicistiche della organizzazione e del suo funzionamento tendono a privilegiare le attività codificabili in procedure e i valori quantificabili in termini oggettivi, quali la riduzione dei costi, il miglioramento del ritorno di un investimento, la crescita della quota di mercato. Esse  portano di fatto a non utilizzare la totalità delle risorse creative esistenti nella organizzazione, ovunque siano collocate; inoltre privilegiano il momento della misura dei risultati e del loro controllo, ma non danno contributi nel comprendere e favorire le fasi a monte del processo creativo.

            Molte aziende vivono ancora del patrimonio di valori introdotto dal fondatore nel periodo eroico immediatamente successivo alla nascita dell'impresa, che si è mantenuto negli anni, talvolta però attenuandosi sempre di più col passare del tempo e delle successive generazioni di manager. è il caso della Olivetti e dello spirito di Camillo e di Adriano Olivetti, della Pinin Farina e del suo omonimo fondatore, della IBM e di Thomas Watson sr., della Apple e del suo fondatore Steeve Jobs e di molte altre aziende, delle quali si ricorda tuttora il ruolo di propagatrici di cultura e di ricerca incessante di spazi di innovazione.

 

5. Finalità e struttura del libro.

            In questo libro mi propongo di presentare e illustrare i fondamenti di una nuova strategia, che ritengo legittimamente di proporre alle imprese per aiutarle a navigare con successo nel tempestoso mare degli anni 90 e dell'inizio del terzo millennio.

            è una strategia basata su scenari e architetture e penso che i  nomi stessi, anche a monte della trattazione che sarà fatta nelle pagine seguenti, evochino un approccio sistemico e costruttivistico, che ritengo essere i concetti ispiratori di tale prassi.

            Ma la sua validità si fonda sopratutto sul distillato di una esperienza, ormai trentennale, costruita, negli anni 60 e 70 dirigendo uno dei più innovativi gruppi di progetto e di ricerca, quello dell'Olivetti, (che seppe realizzare il primo personal computer e la prima macchina per scrivere elettronica del mondo), e dando successivamente negli anni 80 e 90, attraverso l'Elea, supporto di consulenza per l'innovazione e le strategie alle aziende nostre clienti, in periodi di grande turbolenza.

            Oggi questi concetti si vanno diffondendo nel mondo e danno luogo a suggestive rappresentazioni delle aziende come "Learning Organisation", ovvero come "Knowledge-Creating Company", volendo con questi termini significare il superamento del modello burocratico e l'affermazione del valore della conoscenza e della capacità creativa. I paesi più attivi nell'elaborazione di questa nuova cultura d'impresa sono gli Stati Uniti e il Giappone, sopratutto ad opera delle loro università e delle società di consulenza manageriale. Non c'è dubbio però che sono le aziende giapponesi ad essere quasi sempre assunte come punto di riferimento, per il successo che hanno ottenuto e la immagine mondiale di affidabilità e di qualità che hanno saputo diffondere, occupando proprio quegli spazi che le aziende occidentali non avevano saputo presidiare, sopratutto là dove si trattava di tener conto delle trascurate   esigenze dei clienti.

            Io sono però convinto che la spinta propulsiva derivante da queste idee vada oggi esaurendosi, e che sia necessaria una visione più ampia , che faccia certamente tesoro dei risultati concettuali e metodologici acquisiti con la "Total Quality", ma si spinga più in là, e metta le aziende in grado di affrontare i nuovi complessi problemi che la società civile pone davanti a tutti noi. In particolare sono convinto che le aziende hanno non solo bisogno di comprendere come diventare creative e innovative, ma anche e sopratutto di scoprire in quale direzione orientare la creatività e la innovazione Non solo quindi capire come fare, ma cosa concretamente fare. In questa direzione poco è stato fatto e uno degli scopi di questo libro è proprio colmare questa lacuna.

            Volendo ritrovare delle radici al modello di strategia che in queste pagine viene presentato, mi fa piacere pensare che esse risiedano nella visione di impresa che Adriano Olivetti sviluppò negli anni del dopoguerra e che, a mio avviso, precorse i tempi. Già in quegli anni l'espansione e il successo mondiale della Olivetti dimostrarono che una strategia basata, da una parte, sulla valorizzazione delle capacità creative di tutti i membri di una organizzazione, e, dall'altra, su una fabbrica generatrice di armonia e di bellezza attraverso i suoi prodotti, poteva essere un'arma vincente.

            Mi auguro quindi che le imprese che vorranno adottare le strategia degli scenari e delle architetture possano diventare creatrici nel mondo di bellezza e di armonia, così come lo fu la Olivetti di Adriano.(3)